de Alessandro Piero Canturini

El 24 de febrero de este año, los primeros misiles rusos impactaron sobre territorio ucraniano. El mundo, en ese momento, se detuvo, preocupado por el “nuevo” conflicto que estaba acaeciendo. Los noticieros y las redes sociales se saturaron rápidamente de artículos, imágenes y vídeos sobre la invasión y la destrucción que se estaba provocando. Estos nuevos estímulos audiovisuales provocaron una profunda reacción de rechazo e indignación en la población global, sumados, en su mayoría, a un sentimiento de empatía por y apoyo a las víctimas. En un primer momento, el mundo estuvo pendiente del nuevo conflicto, a la par que era “víctima” del bombardeo de estímulos visuales. Sin embargo, esta reacción inicial se fue disipando lentamente. El desbordamiento de imágenes y vídeos, que en un primer momento había logrado captar la mirada del mundo y nos había aproximado al sufrimiento de las víctimas, ahora estaba provocando un cansancio emocional y una tendencia a la insensibilización. Nuevamente, la humanidad se “acostumbró” a aquello que en un momento anterior había provocado indignación y terror. 

El conflicto bélico entre Ucrania y Rusia no es el primer ejemplo de esto. Vivimos en un mundo en permanente convulsión, donde la guerra es la norma, y la paz, la excepción. Diariamente, estamos rodeados de noticias y fotografías que retratan sucesos que atentan contra las normas más básicas del comportamiento social. Cada catástrofe regional o global es escoltada por una inundación de imágenes e información que persiguen la ruina, lo que ha provocado que nos encontremos en una sociedad en proceso de desensibilización ante la tragedia.

Nuestro cerebro está “hecho” para adaptarse a lo trágico, sin importar cuán terrible sea este. Este mecanismo de defensa psicológica no solo nos ha permitido superar las adversidades del día a día y los más terribles sucesos de la historia humana, sino también es el responsable del proceso de habituación emocional ante los estímulos violentos al cual estamos constantemente sujetos. Un estudio realizado por el neuropsicólogo Jordan Grafman mostró que las respuestas físicas y neurológicas, y la actividad cerebral en la corteza orbital frontal, la parte del cerebro implicada en la regulación de la agresión, disminuyeron con el tiempo. Por lo tanto, al ser este un proceso innato en la naturaleza humana, y al vivir en un mundo que consiste en una dieta de infinitas inhumanidades y horrores, ¿cómo no perder nuestra sensibilidad? Parece imposible mantener intactas nuestras reacciones y emociones si entre cada foto o vídeo sobre una desgracia que vemos en las redes sociales, nos topamos con una recopilación de vídeos graciosos, lo que altera completamente el modo en el que nuestro cerebro percibe los estímulos iniciales. Vivimos en un mundo que parece incitarnos a la desensibilización; entonces, cabe preguntarnos qué opción nos queda. 

Susan Sontag, en su libro Ante el dolor de los demás, se propone analizar las implicaciones en el público de las fotografías sobre la guerra. Según la autora, a pesar de que las imágenes nos acercan al sufrimiento de los demás, existe una inevitable distancia entre el “yo” y los “otros”, entre testigo y víctima, distancia que nos termina llevando a la apatía o indiferencia.  Según Sontag, Dondequiera que la gente se sienta segura, sentirá indiferencia”. Y ante esta distancia insoslayable, ¿qué rol debemos desempeñar como testigos lejanos y cercanos de la tragedia? 

Y no solo la distancia y nuestra incapacidad de comprender el dolor ajeno provocan que las tragedias ineluctablemente terminen en el desinterés, sino que también nuestra imposibilidad de lograr algún cambio nos inclina a esta indiferencia. No podemos comprometernos eternamente con el horror mundial, por lo que, en algún momento, decidimos cambiar de “canal”, voltear la mirada de la tragedia, ya sea porque nos abruma el bombardeo de estímulos violentos, o porque queremos de algún modo dejar de ver la naturaleza cruel del mundo en el que vivimos. A pesar de que a miles de kilómetros de distancia haya personas masacrándose, el ser humano en algún momento se harta y decide refugiarse en algo que lo aleje de la realidad del mundo. Sontag postula que, ante lo espeluznante, solo podemos ser meros espectadores, incapaces de realizar un cambio, o cobardes, incapaces de ver.

Ante el dolor de los demás, parece que no se puede hacer nada. El descontrol de contenido audiovisual que retrata las tragedias mundiales nos desengancha de la realidad del mundo, creando una falsa ilusión de paz. La sobresaturación de estímulos que nos recuerdan las monstruosidades y barbaries que el ser humano es capaz de hacer desempeña la simple e inútil función de recordatorio. La indignación inicial dura solo un momento, ya que cada tragedia, sin importar cuán atroz es, termina siendo olvidada o evitada. Tal vez la desensibilización ante la tragedia del otro es un proceso inevitable, y este es el estado al cual estamos sujetos.

La tragedia dell’altro

Il 24 febbraio di quest’anno, i primi missili russi hanno colpito il territorio ucraino. Il mondo, in quel momento, si è fermato, preoccupato per il «nuovo» conflitto che si stava verificando. I notiziari e le reti sociali sono stati rapidamente saturati da articoli, immagini e video sull’invasione e la distruzione che si stava provocando. Questi nuovi stimoli audiovisivi hanno generato una profonda reazione di rifiuto e indignazione nella popolazione mondiale, sommati, nella maggior parte dei casi, a un sentimento di empatia e sostegno per le vittime. In un primo momento, il mondo ha prestato attenzione al nuovo conflitto, «vittima» allo stesso tempo del bombardamento di stimoli visivi. Tuttavia, questa reazione iniziale si è lentamente dissipata. Lo straripamento di immagini e video, che in un primo momento era riuscito a catturare lo sguardo del mondo e ci aveva avvicinato alla sofferenza delle vittime, ora provocava stanchezza emotiva e tendenza alla desensibilizzazione . Ancora una volta, l’umanità si “è abituata” a ciò che in un momento precedente aveva provocato indignazione e terrore.

La guerra tra Ucraina e Russia non è il primo esempio in questo senso. Viviamo in un mondo in perenne convulsione, dove la guerra è la norma e la pace l’eccezione. Ogni giorno siamo circondati da notizie e fotografie che ritraggono eventi che violano le norme più elementari del comportamento sociale. Ogni catastrofe regionale o globale è accompagnata da una marea di immagini e informazioni che rincorrono la rovina, il che ha causato che ci ritrovassimo in una società in procinto di diventare insensibile alla tragedia.

Il nostro cervello è «fatto» per adattarsi al tragico, non importa quanto terribile sia. Questo meccanismo di difesa psicologica non solo ci ha permesso di superare le avversità quotidiane e gli eventi più terribili della storia umana, ma è anche responsabile del processo di abitudine emotiva agli stimoli violenti cui siamo costantemente sottoposti. Uno studio del neuropsicologo Jordan Grafman ha mostrato che le risposte fisiche, neurologiche e l’attività cerebrale nella corteccia orbitale frontale, la parte del cervello coinvolta nella regolazione dell’aggressività, sono diminuite nel tempo. Pertanto, poiché questo è un processo innato nella natura umana, e vivendo in un mondo che consiste in una dieta di infinite disumanità e orrori, come non perdere la nostra sensibilità? Sembra impossibile mantenere intatte le nostre reazioni ed emozioni se tra foto o video su una disgrazia che vediamo sulle reti sociali ci imbattiamo in una raccolta di video divertenti, che altera completamente il modo in cui il nostro cervello percepisce gli stimoli iniziali. Viviamo in un mondo che sembra incoraggiarci alla desensibilizzazione; quindi, occorre chiederci quale opzione ci resta.

Susan Sontag, nel suo libro Regarding the Pain of Others (trad. it. Davanti al dolore degli altri), si propone di analizzare le implicazioni per il pubblico delle fotografie di guerra. Secondo l’autrice, nonostante le immagini ci avvicinino alla sofferenza degli altri, esiste una distanza inevitabile tra l’io e l’altro, tra il testimone e la vittima, distanza che finisce per condurci all’apatia o all’indifferenza. Secondo Sontag, «Ovunque le persone si sentano al sicuro, proveranno indifferenza». E data questa inevitabile distanza, quale ruolo dovremmo svolgere come testimoni lontani e vicini della tragedia?

E non solo la distanza e la nostra incapacità di comprendere il dolore degli altri fanno sì che le tragedie finiscano inevitabilmente nel disinteresse, ma anche la nostra incapacità di raggiungere qualsiasi cambiamento ci porta a questa indifferenza. Non possiamo impegnarci per sempre nell’orrore globale, quindi a un certo punto decidiamo di cambiare «canale», di distogliere lo sguardo dalla tragedia, o perché siamo sopraffatti dalla raffica di stimoli violenti, o perché vogliamo in qualche modo smettere di vedere la natura crudele del mondo in cui viviamo. Nonostante a migliaia di chilometri di distanza ci siano persone che si massacrano a vicenda, l’essere umano a un certo punto ne ha abbastanza e decide di rifugiarsi in qualcosa che lo allontana dalla realtà del mondo. Sontag ipotizza che, di fronte alle situazioni raccapriccianti, possiamo essere solo semplici spettatori, incapaci di cambiare, o codardi, incapaci di vedere.

Di fronte al dolore degli altri, sembra che non si possa fare nulla. La mancanza di controllo dei contenuti audiovisivi che ritraggono le tragedie mondiali ci disimpegna dalla realtà del mondo, creando una falsa illusione di pace. L’eccessiva saturazione di stimoli, che ricordano le mostruosità e le barbarie che l’essere umano è in grado di realizzare, svolge la semplice e inutile funzione di richiamo. L’indignazione iniziale dura solo un momento, poiché ogni tragedia, per quanto atroce sia, finisce per essere dimenticata o evitata. Forse la desensibilizzazione alla tragedia dell’altro è un processo inevitabile, e questa è la condizione cui siamo soggetti.

Articolo tradotto da Francesco Nori